
ARTICOLO / 8 OTTOBRE 2025
Contesto
Nel corso dell’ultimo decennio, i mercati sono diventati sempre più soggetti a cambiamenti rapidi e frequenti. In questo scenario in continua evoluzione, per le aziende tenere il passo dell’innovazione non è semplice: le scelte fatte in termini di stack tecnologico e modalità operative possono fare la differenza tra restare competitivi o rallentare. Release trimestrali, server sovradimensionati e processi manuali che un tempo apparivano adeguati, oggi rappresentano un freno all’innovazione.
In molte aziende, l’architettura applicativa resta ancora ancorata a modelli del passato: soluzioni monolitiche distribuite su macchine fisiche o virtuali, gestite da team separati tra sviluppo e operation. Questa frammentazione rallenta i processi, aumenta i costi e limita la capacità di rispondere velocemente al cambiamento. Ne derivano cicli di rilascio lenti e rigidi (code-freeze, test, deploy), una maggiore esposizione ai rischi di sicurezza e una perdita di attrattività per i talenti digitali, sempre più orientati a contesti dinamici, moderni e collaborativi.
Solo il 30 % delle aziende, secondo una recente survey IDC, dichiara di aver maturato processi cloud‑native realmente efficaci *, mentre secondo Gartner entro il 2027, oltre il 90 % delle aziende del G2000 (ovvero le 2000 maggiori imprese globali) utilizzerà strumenti per la gestione dei container nei loro ambienti ibridi **.
Chi non avvia ora un percorso di modernizzazione rischia di trovarsi fuori mercato nel giro di pochi anni.
I fattori che spingono il cambiamento non sono solo tecnologici. Le aspettative degli utenti finali – sempre più abituati a un’esperienza digitale continua, fluida e personalizzata – alzano costantemente l’asticella. Nel 2025, l’utente-tipo si aspetta nuove funzionalità frequenti, assistenza istantanea e servizi disponibili in ogni momento. Allo stesso tempo, i vertici aziendali pongono crescente attenzione su tre fronti chiave: ridurre il time-to-market, governare i costi del cloud e far fronte alla scarsità di competenze tecniche in ambiti strategici come DevOps e cybersecurity.
In questo contesto, intraprendere un percorso di modernizzazione applicativa basato su architetture containerizzate e microservizi orchestrati rappresenta una leva strategica per garantire agilità, efficienza operativa e controllo del rischio.
Dal modello tradizionale al paradigma container‑native
Nel modello applicativo tradizionale, il software viene sviluppato come un unico blocco, strettamente legato all’ambiente in cui viene eseguito. Ogni fase – dallo sviluppo al collaudo fino al rilascio – richiede adattamenti, configurazioni specifiche e spesso lunghi periodi di congelamento delle attività. Questo rallenta l’innovazione e aumenta il rischio di errori.
Il paradigma container-native supera questi limiti: le applicazioni vengono suddivise in microservizi indipendenti, ciascuno racchiuso in un “contenitore” che include tutto ciò che serve per funzionare correttamente, ovunque venga eseguito. Lo stesso componente può essere eseguito in modo identico sul laptop di uno sviluppatore, in un data center aziendale o nel cloud, garantendo portabilità, coerenza e velocità.
Al centro di questo nuovo approccio c’è Kubernetes, una piattaforma che gestisce e coordina i container, automatizzando attività complesse come il bilanciamento del carico, la scalabilità e il recupero in caso di errore. Tuttavia, non basta avere una piattaforma tecnica: servono anche processi ben orchestrati di rilascio. È qui che entra in gioco il modello CI/CD (Continuous Integration / Continuous Delivery), che automatizza test, verifiche e distribuzioni, garantendo qualità e rapidità. Con l’approccio GitOps, anche l’infrastruttura viene gestita come codice, migliorando il controllo, la sicurezza e la tracciabilità di ogni modifica.
La svolta culturale della CI/CD
Per comprendere il reale impatto dell’approccio CI/CD, basta confrontare un rilascio tradizionale con uno completamente automatizzato. Nel primo scenario, ogni deploy comporta interventi manuali: conflitti di merge da risolvere a mano, build locali soggette a errori, modifiche dell’ultimo minuto a file di configurazione come Docker Compose o Kubernetes, e accessi in SSH (Secure Shell) ai server di staging per sistemare “al volo” ciò che non torna. Un processo lento, fragile e ad alto rischio di errore umano.
Con una pipeline CI/CD ben progettata, invece, tutto si attiva automaticamente: al primo push del codice, il sistema compila, lancia i test, genera l’immagine container, firma la supply chain, aggiorna i manifest e sincronizza lo stato dell’applicazione nel cluster tramite tool come Argo CD. Se un test fallisce, la pipeline si interrompe e notifica il team; se tutto è conforme, il rilascio in ambiente di sviluppo è immediato e il passaggio in produzione può avvenire con un semplice click. Tecniche come il deploy canary o blue-green permettono inoltre di esporre le nuove versioni solo a una parte degli utenti, riducendo il rischio e semplificando eventuali rollback.
I vantaggi non sono solo tecnici ma misurabili anche in termini di impatto sul business. Dove prima il ciclo di rilascio durava 90 giorni, oggi si lavora a sprint settimanali o giornalieri. Il tempo medio di ripristino in caso di errore passa da alcune ore a pochi minuti. E gli incidenti legati a configurazioni errate calano drasticamente, grazie alla revisione peer-to-peer del codice infrastrutturale. Secondo il State of DevOps Report***, le organizzazioni che adottano pipeline CI/CD registrano una velocità di deploy superiore del 60% e una riduzione dei costi operativi tra il 25% e il 30%.
Fattori che spingono il cambiamento
Quattro driver principali alimentano l’urgenza di intraprendere un percorso di containerizzazione:
Time-to-market sotto pressione
In un mercato in continua evoluzione, le nuove funzionalità devono essere rilasciate in giorni, non in trimestri. Ogni ritardo espone l’azienda al rischio concreto di perdere quote di mercato e rilevanza competitiva.
Elasticità nei picchi di carico
Settori come e‑commerce, streaming e fintech sono soggetti a forti stagionalità e a variazioni improvvise del traffico. Servono infrastrutture in grado di scalare automaticamente, evitando sprechi e over-provisioning.
Adozione di AI e analytics
Le pipeline di intelligenza artificiale – sia in tempo reale che batch – richiedono ambienti flessibili, distribuiti e altamente scalabili. I microservizi e l’architettura event-driven offrono il livello di modularità e performance necessario per supportare questi carichi.
Rischi crescenti sul fronte sicurezza
Le minacce alla supply chain, così come le errate configurazioni cloud, impongono modelli più sicuri: ambienti isolati, immutabili e tracciabili fin dal momento della build, in grado di garantire possibilità di audit e resilienza.
Principi guida
Portabilità, automazione, osservabilità e sicurezza continua: sono i quattro pilastri identificati dal DevSecOps Manifesto. Nella pratica della containerizzazione, si traducono in scelte architetturali e operative molto concrete:
Immagini immutabili → il codice viene “impacchettato” con le sue dipendenze, garantendo che si comporti allo stesso modo su ogni ambiente: dal laptop di sviluppo al cloud di produzione.
Automazione CI/CD → pipeline che eliminano attività manuali ripetitive, standardizzano i processi e riducono il rischio di errore umano.
Osservabilità centralizzata → raccolta e analisi unificata di metriche, log e trace per avere visibilità end-to-end sul comportamento delle applicazioni.
Policy e sicurezza by design → regole di validazione (ad esempio via OPA) che controllano in automatico le risorse prima che vengano distribuite nei vari ambienti.
Dalla teoria alla pratica: la roadmap in quattro step
1. Assessment iniziale
Si parte da un inventario dettagliato di applicazioni, dipendenze, SLA, costi e rischi. Questo passaggio è fondamentale per definire le priorità: non tutto deve essere containerizzato subito. In genere si comincia dai servizi soggetti a modifiche frequenti o che possono beneficiare maggiormente di scalabilità elastica.
2. Adozione della piattaforma container
Entra in gioco Kubernetes come layer di orchestrazione. In contesti enterprise, strumenti come SUSE Rancher o le soluzioni managed dei cloud provider offrono funzionalità avanzate come RBAC centralizzato, single sign-on e audit logging. La piattaforma consente autoscaling verticale e orizzontale, aggiornamenti a caldo (rolling update) e capacità di auto-recupero (self-healing).
3. Implementazione di CI/CD e GitOps
Pipeline automatizzate con GitHub Actions o GitLab CI gestiscono l’intero ciclo: test, build delle immagini e promozione lungo gli ambienti. Tool come Argo CD o Flux mantengono sincronizzato lo stato desiderato all’interno del cluster. I manifest Kubernetes vivono nello stesso repository del codice, seguendo logiche di versioning. La filosofia Shift-Left integra la sicurezza nel processo di sviluppo, grazie a test automatizzati su codice e dipendenze (SAST, DAST, SCA).
4. Governance, observability e cost management
In produzione, dashboard come Grafana e alerting con Prometheus garantiscono visibilità e controllo. Policy OPA verificano che vengano eseguite solo immagini firmate e autorizzate. Strumenti FinOps analizzano l’uso delle risorse e suggeriscono azioni di rightsizing per ottimizzare i costi.
Benefici concreti
Il percorso di containerizzazione produce benefici concreti, misurabili lungo tutta la catena del valore.
Il time-to-market si riduce fino al 70%: funzionalità che prima richiedevano mesi possono essere rilasciate in settimane. L’infrastruttura diventa più efficiente, con una riduzione dei costi operativi del 25-30% grazie all’uso elastico delle risorse. I deployment diventano fino al 60% più rapidi, mentre la resilienza applicativa cresce sensibilmente grazie a meccanismi di failover distribuiti e self-healing.
In un caso reale, un importante retailer – passando da un’architettura monolitica ad una a microservizi – ha raddoppiato la frequenza dei rilasci, eliminato le finestre di manutenzione notturna e dimezzato il TCO nel primo anno.
Le sfide? Superabili se affrontate con visione
Nessuna trasformazione significativa è priva di ostacoli.
L’introduzione di nuove piattaforme e pratiche richiede investimenti in competenze, strumenti e cultura. Alcune funzioni possono percepire la containerizzazione come un fattore di rischio o di complessità.
Ma è proprio qui che si gioca la differenza tra un’adozione tattica e una strategia evolutiva: partire da un progetto pilota, misurare i risultati, scalare progressivamente. La formazione è un acceleratore chiave: workshop pratici su Kubernetes, GitOps e sicurezza container abilitano il team e riducono la frizione del cambiamento.
Il supporto del top management è determinante. Se la containerizzazione resta confinata al dominio IT, perde forza trasformativa. Ma se il CFO la legge in termini di ROI, CapEx flessibile e prevedibilità dei costi, e il CISO la interpreta come leva di sicurezza e compliance nativa, allora diventa una strategia condivisa.
Containerizzare per competere
Containerizzare non è una scelta puramente tecnologica.
È un atto di modernizzazione strategica. Permette di innovare più rapidamente, di costruire ambienti resilienti, di attrarre talenti con skill aggiornati e di misurare ogni rilasciata in termini di impatto reale sul business.
In uno scenario in cui oltre il 90% dei workload sarà containerizzato nei prossimi due anni, restare immobili significa rinunciare alla velocità, alla flessibilità e – in ultima analisi – alla competitività.
In Var Group affianchiamo le aziende in ogni fase di questa trasformazione, con una visione architetturale chiara, metodologie collaudate e un approccio modulare, aperto, privo di lock-in. La tecnologia è solo il punto di partenza: ciò che conta è il modo in cui viene guidata e governata.
La containerizzazione, se affrontata con visione e consapevolezza, non è solo un cambio tecnologico, ma un’opportunità concreta per rendere l’IT più veloce, flessibile e strategico. Le organizzazioni che iniziano oggi questo percorso saranno pronte a competere — e innovare — domani.
Daniele Viti | OpenSource Solution Architect Var Group